Quantcast
Channel: Serialmente » American Horror Story
Viewing all articles
Browse latest Browse all 8

American Horror Story – 3×05/06 – Burn, witch. Burn!/The Axeman cometh

$
0
0

Lo so già, quello che mi direte. Mi direte che non ha senso guardare AHS come si guardano le altre serie tv. Mi direte che non ha senso parlare di AHS come si parla di narrativa. Mi direte che non ha senso, con AHS, fissarsi su personaggi, trama, ambientazione e tema. Mi direte che di AHS è lecito e legittimo fare solo un’analisi estetica, uno studio dello stile, al massimo una ricerca di fonti e citazioni.  Come leggerete nella recensione, se leggerete la recensione, io non la penso proprio così.

“I’ve led a disreputable life, but I’ve done it in style. And I’ll die likewise”. Come spesso accade, le parole pronunciate dai personaggi sono buoni indizi nell’indagine sulla natura e sugli intenti della serie stessa. Il peso dello stile (chiamo così le scelte fatte dallo scrittore nell’atto del creare e raccontare una storia, ché definizioni migliori non me ne vengono), in questa serie qui, è sempre stato importante, tanto importante da far sorgere il dubbio, in certi momenti, che la funzione simbolica dominasse sulla funzione narrativa. Per spiegarmi: di AHS si fa prima a ricordare immagini o brevi sequenze che storyline. Perché? Non certo perché dette storyline fossero così complesse da generare confusione e/o dimenticanza. Il contrario. Dette storyline sono state tutte dimenticabili perché sono state tutte trascurabili, sia all’interno della serie (essendo l’immagine il centro dell’attenzione, le storie erano tutte sostituibili in quanto spogliate di significato e importanza intrinseci) che all’esterno (essendo le storie semplici e già viste, nessuno s’è ritrovato il proprio universo narrativo sconvolto da AHS). Sono tutte storie semplici e già viste, che coinvolgono personaggi semplici e già visti che agiscono e interagiscono per ragioni semplici e già viste. Storia e personaggio, in AHS, sono solo il mezzo per arrivare a (la prima) e il protagonista de (il secondo) l’Immagine, questo sì fondamentale in cui la serie di Murphy e Falchuk eccelle. Quando penso a questa serie, infatti, penso per immagini, non per storie; penso alle immagini, non alle storie. Spesso si paragona, più per divertimento che per pertinenza, la televisione al cinema. Sempre per divertimento, io preferisco paragonare AHS alla fotografia, preferisco pensarla più come un tentativo di catturare la bellezza (dell’immagine e nell’immagine) in un dato momento del tempo che come lo sforzo di generare e riprendere un moto narrativo. AHS è una galleria fotografica piena di immagini tenute assieme dall’essere americane e dall’essere horror, ma che messe assieme non fanno, necessariamente, una storia. Non una grande storia, di sicuro.

Io, messo di fronte a una fotografia, non mi chiedo quali sono le ragioni, i fini e le storie dei soggetti. Non mi interessa perché ciò che conta siamo io e l’immagine, ciò che conta è l’effetto dell’immagine su di me. È un rapporto duale ed esclusivo che non necessita di niente e nessun altro. Ecco perché è così difficile trovare personaggi ai quali legarsi, in questa serie. Se l’obiettivo è porre lo spettatore di fronte all’immagine, il personaggio non è che un accessorio, costruito come tale e, quindi, funzionale. Esaurita la sua funzione, l’accessorio esaurisce la sua utilità. Perché i personaggi di AHS sono così difficili da sopportare fino a quando non si mette loro in mano una motosega e li si spruzza di sangue? Perché sono fatti per quel momento, e quello soltanto. Perché quando si tenta di raccontarli, si scade nel banale. Perché, diciamoci la verità, Murphy non è questo gran narratore. È sicuramente grande in un che, ma questo che non è raccontare.

Cosa c’entra questo pippone con i due episodi in questione? C’entra perché i due episodi in questione mostrano il bello e il brutto di questa serie, mostrano come, quando e perché funziona e quanto sottile sia la linea tra bravura e mediocrità sulla quale ogni settimana tenta di rimanere in equilibrio.

Burn, witch. Burn!

Per tornare al discorso di prima: cosa mi ricordo di questo episodio? Quattro fotografie (o brevi sequenze):

  1. La “conversazione” tra una intossicata Fiona e una ragazza che ha appena partorito una bambina già morta
  2. La “conversazione” tra la mamma pentita Madame LaLaurie e la figlia zombie Borquita
  3. Zoe che abbatte zombie motosega alla mano
  4. Myrtle bruciata viva

Se mi chiedessero di raccontare questo episodio, descriverei queste immagini. Badate, le descriverei, non le racconterei, perché da raccontare c’è ben poco. A tenere insieme l’episodio dal punto di vista tematico c’è la maternità fallita dei personaggi interpretati da Jessica Lange e Kathy Bates, entrambe costrette ad affrontare le situazioni drammatiche delle figlie, entrambe costrette ad ammettere il peso di una maternità assente (nel caso di Fiona) o deforme (nel caso di Madame). C’è una differenza di fondo, però, tra due linee narrative apparentemente così simili, differenza che è, poi, ciò che passa tra l’esser riuscita dell’una e l’essere fallita dell’altra: se Fiona ci è stata presentata sin dall’inizio come una madre con un qualche tipo di rapporto d’affetto con la figlia (univoco, complicato e disfunzionale quanto volete, ma esistente), Madame è stata dipinta, fin nel cold open di questo episodio, come un mostro pronto a rinchiudere le figlie nella Soffitta degli Orrori perché colpevoli di tentata insubordinazione. Il percorso che sta portando Madame dalla realizzazione al pentimento passando per l’espiazione appare, quindi, forzato e affrettato. Neanche la drammaticità della situazione (l’incontro con la figlia-zombie) riesce a giustificare questa trasformazione, perché non riesce a pareggiare la drammaticità delle premesse del personaggio. A una donna che è stata raccontata come un mostro è difficile, poi, applicare i meccanismi psicologici e istintivi dell’umano. Insomma, non si può passare da mostro a mamma dalla sera al mattino, non si può passare da “On Christmas morning I’m gonna stuff your conniving mouth full of shit” a “Come back to me, child. I will do amends” all’interno dello stesso episodio. Non per chi guarda, almeno.

Tra l’altro, Madame LaLaurie in questo episodio rientra nel ragionamento fatto più su sulla funzione che storia e personaggio ricoprono in AHS. Questo, di personaggio, è stato creato e scritto per essere ritratto nelle scene che la vedono protagonista nel 1833, nella Soffitta degli Orrori. La sua unica caratterizzazione è, di conseguenza, l’indicibile crudeltà che le permette di essere al centro di quelle immagini nel 1833, nella Soffitta degli Orrori. Nel momento in cui Madame la si sposta da quel tempo, da quel luogo e da quell’immagine, si ottiene il personaggio inutile del 2013. Nel momento in cui a Madame si tenta di attaccare un qualunque altro tipo di definizione (in questo caso l’istinto materno), il personaggio crolla su se stesso, incapace di reggere il peso dell’ulteriore caratterizzazione. Questo succede anche perché la maggior parte dei personaggi di AHS vivono di caratterizzazioni “radicali”, si nutrono di emozioni forti, interagiscono in funzione degli impulsi emessi da queste emozioni forti. I personaggi di AHS amano o odiano, si amano o si odiano tra loro, niente di più o in mezzo. E, d’altronde, per la natura del progetto di Murphy e per la natura del genere horror, non è necessario tanto altro. Il punto è che quando personaggi così caratterizzati cambiano, cambiano radicalmente. Di conseguenza, Madame LaLaurie passa dall’odiare le figlie e dal tenerle rinchiuse in una camera delle torture per un anno, ad amarle e abbracciarle. E questo è difficile da accettare per chi guarda.

Perché i personaggi interpretati da Jessica Lange finiscono per essere sempre i più interessanti, di stagione in stagione? Perché sono gli unici che hanno beneficiato di una caratterizzazione che andasse oltre questo radicalismo, oltre l’amore e l’odio, oltre il torto e la vendetta, oltre la simpatia e l’antipatia. Era così per Costance, era così per Jude. Inquadrarle era complicato e quindi interessante. Capirle era difficile, era difficile capirne l’agire (fin nella sua plausibilità narrativa), ma questa difficoltà di comprensione si traduceva in libertà di movimento per il personaggio.

Il paragone tra AHS e la fotografia tiene ancora di più quando si considera la “storyline” dell’attacco zombie, su cui non c’è proprio nulla da dire se non che Taissa Farmiga con la motosega in mano è bellissima (la fotografia, appunto) e che sarà lei la prossima Suprema, dato il nuovo potere sbloccato, con il quale riesce a fermare la magia di niente popò di meno che Marie Laveau.

La parte più interessante dell’episodio è la seconda metà, quella che vede il ritorno del Consiglio per portare a termine l’indagine su Fiona. È la parte migliore perché ci regala un altro estenuante duello a colpi di bravura tra Jessica Lange e Frances Conroy; perché regala l’unico colpo di scena definibile come tale dell’episodio; perché riesce a portare a termine l’unica sottotrama fin qui ben distinguibile di questa terza stagione; perché la scena in cui Myrtle viene arsa viva è splendida, impeccabilmente costruita in ogni dettaglio. È il segno, questa scena, di quello che a questa serie riesce meglio, il mescolare estetiche differenti per formare uno stile unico, in questo momento, nella televisione statunitense, per cura, ricercatezza e raffinatezza.

Funziona questo episodio? Sì, funziona. È drammatico, è violento, è divertente. Racconta una storia, seppur elementare (quella del processo a Fiona, dell’odio tra Fiona e Myrtle, della morte di Myrtle); approfondisce dei personaggi, seppur in maniera elementare e con risultati alterni; regala colpi di scena, anche qui con risultati alterni (buono quello che porta alla condanna a morte di Myrtle, scontato quello che porta alla resurrezione della stessa per mano di Misty Day); fa avanzare di un mezzo passo la trama orizzontale, con la scoperta del nuovo potere di Zoe e il suo divenire papabile per il ruolo di Suprema. Ha dei difetti, questo episodio? No, non ce li ha. Ce li ha la serie, i difetti. E sono quelli dalla e della prima stagione. Non essendo la forma episodico-settimanale, per AHS, niente di più che una scadenza imposta, il singolo episodio non ha mai pregi o difetti in sé che non siano attribuibili alla serie tutta. L’unica differenza sostanziale che si può riscontrare di settimana in settimana è il mantenimento di quell’equilibrio da cui deriva la godibilità della serie e della puntata. Tutte le puntate di AHS offrono lo stesso: violenza, sarcasmo, citazioni, bellezza. Cosa fa la differenza tra un brutto episodio e un bell’episodio, allora? L’equilibrio, appunto. La capacità di mettere assieme gli ingredienti di cui sopra, senza farne risaltare nessuno e valorizzandoli tutti. Quando ci si riesce, abbiamo “Burn, witch. Burn!” che, pur traballando, tiene a sufficienza da essere il miglior episodio della stagione. Quando non ci si riesce, abbiamo “The Axeman cometh” che, pur bello, violento, sarcastico e citazionista, è schiacciato dal peso del troppo, del superfluo, dell’esagerato.

Ok.

The Axeman cometh

Uno si immagina, a metà stagione circa, di poter tirare le prime somme sulla trama orizzontale, sui personaggi, sull’annata. Se non questo, quanto meno di aver capito quale sia la trama orizzontale, quali siano i protagonisti e gli antagonisti, quale sia il tema. AHS non si preoccupa di nessuna di queste cose e, anzi, rilancia: aggiunge sottotrame, ne ripesca di dimenticate, introduce nuovi personaggi, resuscita i morti e si ricorda che ci sta pure Evan Peters. E Sarah Paulson, ci sta pure Sarah Paulson.

Uno dei problemi più grossi di AHS dal punto di vista narrativo è l’incapacità di contenersi e, quindi, di definirsi. Si dirà che questa assenza di definizione è una delle intenzioni della serie, una serie che vuol essere libera da qualunque contenimento e contenitore. Da qui la struttura che prevede per ogni stagione un insieme di storie, personaggi e ambientazioni che non si rinnovano annualmente assieme alla serie stessa. Io, ormai, mi sono fatto l’idea che questa struttura si sia rivelata più un problema che un vantaggio. Mi spiego: le altre serie tv agiscono (e il loro agire è giudicato) su due dimensioni temporali, la stagione e le stagioni. Personaggi e storie devono trovare coerenza e chiusura nella prima e nelle seconde in egual maniera. Tuttavia, la possibilità di spalmare la narrazione su più anni (più puntate) lascia un tempo e una libertà che AHS non può permettersi. Essendo fondata sulla stagione, AHS deve dare coerenza e chiusura a storie e personaggi entro la stagione. Già questo è di per sé difficile. Se ci si aggiunge un numero di personaggi medio-alto e la scarsa propensione al racconto, il risultato è presto detto.

Eccoci tornati al problema. Questa è una puntata parecchio narrativa, insolitamente narrativa: succedono tante cose, si scoprono tante cose, si preparano tante cose. Eppure, la sensazione che se ne ricava non è quella di un racconto che si restringe e si addensa, che lascia evaporare l’acqua per guadagnare sapore e consistenza. La sensazione è quella di un racconto che si diluisce ancora, di un brodo già lento a cui è stata aggiunta altra acqua per far sembrare il piatto più pieno e più invitante. Come se non bastasse tutto quello che già c’era in ballo, ora abbiamo anche:

  1. Zoe, Queenie e Nan trovano una tavola Ouija che usano per comunicare con uno spirito intrappolato nella scuola, sperando di ottenere da quest’ultimo informazioni sulla scomparsa di Madison (?). Trovano il cadavere della ragazza negli appartamenti di Splading, il quale viene catturato, torturato e costretto a confessare.
  2. Zoe e Misty Day resuscitano Madison. Misty, in particolare, ci regala una delle battute più ridicole della serie (volontaria o meno, io sono scoppiato a ridere): “She has too much death inside her”. Dopodichè, Madison rigurgita la morte in eccesso e resuscita.
  3. Ritorna Kyle, scopriamo che non riesce a farsi il bagno e che non gli piace Stevie Nicks (il senso del personaggio di Kyle, un giorno, me lo farò spiegare).
  4. Cordelia è accecata, ma ha ottenuto un nuovo potere: The Sight. Un potere talmente straordinario che le fa scoprire che il marito la tradisce ma non che (continua al punto 5).
  5. Hank è un cacciatore di streghe infiltratosi nei loro ranghi su ordine di Marie Laveau. Ricapitoliamo: Hank passa da marito ideale ad assassino fedifrago ad assassino, fedifrago e cacciatore di streghe. In due episodi.
  6. The Axeman è libero, e probabilmente sarà “the last great love affaire” di Fiona.

Ora, di quanta di questa roba c’era bisogno? La storia non era già abbastanza arzigogolata così com’era? Ma la discussione non prende soltanto la quantità della carne messa al fuoco, ma pure la qualità. Madison ritorna sfruttando un mezzuccio narrativo (il potere di Misty Day, che più che un personaggio è un plot device) e rimane sfruttandone un altro (la sempiterna e sempre utile amnesia che non ti fa ricordare chi è il tuo assassino). Hank, personaggio anonimo fino a un paio di episodi fa, lo si riesce a mettere al centro della narrazione solo drogandolo di colpi di scena uno dietro l’altro. Cordelia, altro personaggio anonimo, guadagna un briciolo di personalità acquisendo un potere che, c’è da esserne sicuri, sarà l’ennesimo deus ex machina a disposizione del narratore.

Il personaggio di The Axeman (Danny Huston, ennesimo gioiello di quella corona che è il cast di quest’anno), poi, merita un discorso a parte. Il cold open che lo vede protagonista mi è piaciuto, pur essendo gratuito e del tutto scollegato dalla trama orizzontale (se pure esiste, una trama orizzontale, in questo show), ma la resa successiva del serial killer e l’uso che, probabilmente, se ne farà mi hanno deluso. Sorvolando sulla bruttezza della scena in cui insegue Cordelia nella di lei camera da letto (impreziosita da dialoghi che sarebbero idioti pure per l’Arma Letale 6 girato dalla gang di Sunny in Philadelphia: “Go to hell!” – “Ladies first“), non riesco proprio ad immaginare un impiego peggiore del personaggio di quello di love interest di Fiona. E il problema non è tanto il suo di lui quanto il suo di lei: Fiona era l’unico personaggio apparentemente complesso della serie, l’unico mosso da una ragione che non fosse amore, odio o vendetta, l’unico capace di emozioni complesse. Imbrigliarla adesso in una relazione amorosa, in questa relazione amorosa, pare un fermo imposto alla sessione ritmica della serie e della stagione.

Il paradosso della mia critica sta nell’accusare AHS di essere poco narrativa e poi disprezzare uno degli episodi più narrativi che questa terza stagione ci abbia regalato, lo so. Il mio problema con AHS non nasce, però, dalla sua scarsa “narratività”, ma dal suo stile narrativo. Quel poco che racconta, lo racconta in una certa maniera. Questa certa maniera è celebrata in tutto il suo orrore (o splendore, a seconda dei gusti) in questo episodio, pieno dei colpi di scena e dei deus ex machina che il genere horror soprannaturale fornisce in abbondanza. Ma, nonostante l’uso massiccio del plot twist, la trama e le sottotrame di questa stagione restano in gran parte dimenticabili. Il fatto è che l’uso del colpo di scena ha le stesse conseguenze, sull’autore e sullo spettatore, dell’uso che qualunque sostanza chimica ha sul corpo: costruisce livelli sempre più alti di tolleranza e assuefazione, chiudendo un cerchio di progressiva co-dipendenza e co-soddisfazione al quale è difficile sfuggire. E questo vale per l’audacia del racconto come per quello dell’immagine.

L’autore si ritrova sempre più portato e costretto all’uso del colpo di scena per infondere drammaticità a storie e personaggi altrimenti anonimi. Lo spettatore alza sempre più l’asticella della tolleranza, pretendendo e ottenendo sempre di più dall’autore. E così all’infinito. Solo che, prima o poi, si raggiunge il limite oltre il quale è pericoloso andare. A questo punto, le possibilità non sono molte: o si depura il corpo dalla sostanza e si ricomincia, prestando attenzione, questa volta, a frequenza e quantità nell’uso*, oppure si rischia l’intossicazione. Ecco, AHS mi pare una serie a rischio di intossicazione, e questo episodio è l’esempio di quanto forte sia il rischio e spaventosa l’idea.

*per fare un esempio: Homeland è una serie che ha fondato la sua seconda stagione sul colpo di scena, sull’enorme colpo di scena. Esauriti i colpi disponibili e plausibili, la serie, nella terza stagione, ha dovuto necessariamente rallentare, ritrovandosi a gestire problemi sconosciuti in precedenza e non più risolvibili con lo stesso metodo. Quello che sembrava coraggio un anno fa si è rivelato essere avventatezza un anno dopo.

La pochezza della narrativa di AHS è, secondo me, dimostrata anche dal fatto di come si riesca a darle importanza sempre e solo interpretandola in chiave simbolica (questa stagione è femminista? Io sono d’accordo con quello che ha scritto Daniela nella sua recensione). Non si parla mai dell’oggetto e dei modi del racconto, ma solo della sua interpretazione. Horror e metafora, horror e satira sociale, horror e critica sociale sono sempre andati d’accordo, certo. E l’horror come genere (letterario e cinematografico) ha sempre fatto affidamento anch’esso sul plot twist e sul deus ex machina, certo. Ma l’ovvietà di cui non si tiene mai conto è il tempo a disposizione. L’horror è stato un genere scarsamente televisivo fino ad adesso, e tutti i riferimenti più pertinenti che si hanno in materia sono riferimenti cinematografici. Se c’è una differenza tra cinema e tv, questa è il tempo. Se una storia semplice e dei personaggi semplici possono reggersi su colpi di scena e deus ex machina per 90 minuti (la durata media dei film horror dalla nascita del genere a oggi), questo è impossibile per 520 minuti (13 episodi da 40 minuti l’uno). L’attenzione torna inevitabilmente a puntarsi sul racconto e, purtroppo, questa stagione non è poi ‘sto gran raccontare.

Meh!

 

L'articolo American Horror Story – 3×05/06 – Burn, witch. Burn!/The Axeman cometh sembra essere il primo su Serialmente.


Viewing all articles
Browse latest Browse all 8

Latest Images

Trending Articles